L’offerta di libri dedicati agli alberi monumentali presenti nel nostro Paese per fortuna non manca: sono diversi gli scrittori che hanno dedicato almeno un volume all’argomento così come sono molte le regioni italiane che hanno pubblicato libri che catalogano i loro più importanti esemplari arborei, segno che l’interesse che ruota intorno agli alberi monumentali si fa sempre maggiore e comincia ad attrarre un pubblico sempre più vasto.
A questa ormai non trascurabile offerta si è aggiunto da poco un nuovo libro, Homo Radix – Appunti per un cercatore di alberi, scritto da Tiziano Fratus e che sta riscuotendo un notevole successo. Il libro, edito da Marco Valerio, è sì un’opera dedicata agli alberi monumentali (sono 40 gli esemplari trattati nel volume e illustrati da magnifiche foto in bianco e nero) ma l’autore non si limita ad elencarne età, luogo e stato di conservazione ma propone riferimenti letterari, poesie, storie, racconti di viaggio, considerazioni personali e molto altro ancora che, assieme al suo amore per la natura e per questi magnifici esemplari, rendono Homo Radix un libro da leggere assolutamente e che non può mancare nella libreria degli appassionati e non solo.
Grazie a un contatto con l’editore ho avuto la possibilità di rivolgere, così come già fatto con Valido Capodarca, alcune domande a Tiziano Fratus che ringrazio per la disponibilità e per il (per forza parziale) elenco degli alberi monumentali da non perdere che trovate a fine intervista.
Per prima cosa ci racconta qualcosa su di lei, chi è Tiziano Fratus?
Tiziano Fratus è un uomo. È una persona che ha dedicato gli ultimi dieci anni della propria vita alla scrittura, all’editoria, alla poesia e alla ricerca di radici. È un uomo che ama passare parte del proprio tempo a leggere, a camminare, a guardare, a respirare, a cercare alberi e a scrivere.
Quando nasce la sua passione per la natura e per gli alberi in particolare?
Direi che sin da piccolo ho percepito una maggiore affinità con le regole di comportamento e comunicazione fra gli esseri viventi che non con gli altri esseri umani. Gli esseri umani non li ho mai capiti, non li capisco nemmeno oggi. Da bambino preferivo la compagnia degli animali, passavo le estati collezionando insetti, esplorando il giardino di casa mia piuttosto che il letto del fiume Serio, vivevo nella bassa bergamasca. Poi seguii mio padre nel Monferrato, sulle colline fra Acqui Terme e Ovada, dove ho trascorso gli anni turbolenti e irrequieti dell’adolescenza; anche qui passai molto tempo a contatto con gli elementi naturali. Da adulto ho poi iniziato a scrivere, pubblicando una ventina di libri di poesia in varie parti del mondo, poesia che è transitata attraverso la consueta scrittura autobiografica per poi plasmarsi nei confini del paesaggio tanto da portarmi a dichiarare una grande fiducia in quella che chiamo “poesia ambientale”, una poesia che va a segnare i rapporti, i confini, le interazioni delle diverse creature viventi e conviventi dentro il paesaggio, animali, uomini e alberi. Durante le tournée negli Stati Uniti, in Francia, in Portogallo, in Scozia piuttosto che nel sud est asiatico ho avuto modo di allenare questa mia grande passione per gli alberi che negli ultimi anni ha prevalso. Come dico in Homo Radix: “Sono un uomo che si fa sempre più albero in un paesaggio di alberi che si fanno sempre più uomini.”
Veniamo al libro: Homo Radix, “uomo radice”, ci spiega lo spirito che anima la sua opera?
Il mondo dell’editoria e della cultura richiedono la specializzazione: sinteticamente si dice che Homo Radix sia un libro dedicato agli alberi monumentali. È vero ma sarebbe un errore pensare a quest’opera esclusivamente in termini botanici. Prima di tutto perché non sono un botanico e quindi le mie conoscenza, da autodidatta, non possono che essere relativamente superficiali: classificazione in latino, descrizione delle specie e delle principali caratteristiche, osservazioni empiriche quali luogo di dimora, stato di salute, notizie storiche. In secondo luogo perché Homo Radix è un libro di formazione, è una raccolta di quaranta appunti nei quali parlo di me, della mia ricerca di radici: sono un immigrato da un Nord Italia ad un altro Nord Italia, diverso da quello delle origini – esiste d’altro canto anche un’immigrazione o migrazione interna, su scala ridotta, che muove le persone lungo il fiume Po, da est a ovest e viceversa. Una ricerca di identità che fa i conti con la mia travagliata storia personale, e con l’identità di un ragazzo che si fa uomo e decide di provare a seguire i sogni, a realizzare, a materializzare una visione del mondo che possa superare i limiti dello sbandamento attuale, politico, sociale, culturale ed economico. Non mi è mai bastato crescere, affiliarmi ad un lavoro di routine, sebbene abbia rispetto per coloro che lo abitano, lo indossano e lo vivono quotidianamente. Mi sono impegnato a edificare un rapporto con la natura, con il paesaggio, con gli elementi che ne fanno parte e con una visione delle economie rurali e locali che possa rivitalizzare il paese senza aspettare le grandi riforme che dovrebbero calare dall’alto, e che purtroppo, al contrario, sembrano sempre più distanti e illusorie. In Homo Radix c’è tutto questo: ipotesi sulle economie locali, sul turismo, sulla cultura, ovviamente notazioni di viaggio, appunti dei miei vagabondaggi alla ricerca di alberi in Sicilia, in Liguria, in Valle d’Aosta piuttosto che in California o a Singapore. Ci sono incursioni nella letteratura, con riproposizioni di poesie e brani di autori che nel mondo moderno hanno scritto di alberi, alberi immaginari o alberi esistenti, che possono essere visti anche oggi. La mia speranza è che questo volume, e le esposizioni fotografiche che la completano, concorra, insieme all’azione di molti amanti della natura, della tutela ambientale, di case editrici, parchi, riviste, orti botanici, professori e altri scrittori che hanno curato o stanno curando volumi sugli alberi e sugli alberi monumentali, alla presa di coscienza dell’enorme valore del patrimonio arboreo presente in Italia e nel mondo. Come esseri pensanti siamo abituati a viaggiare, a spostarci nel tempo e nello spazio per andare a visitare i capolavori dell’arte, dell’architettura, della pittura, per andare a teatro o per godere di uno scorcio di paesaggio: e perché non abituarci ad andare anche a visitare gli esseri viventi più longevi su questa terra? Un castagno (castanea sativa) di duemila anni, una quercia (quercus virginiana) di mille e duecento, un platano (platanus occidentalis) di trecento anni? Propongo un piccolo esercizio a tutti i lettori: attraversare la propria città, il proprio paese o la propria periferia differenziando i tipi di alberi presenti: chiunque, superate le inevitabili prime difficoltà, si troverà ad ammirare la bellezza della biodiversità, scoprendo che il proprio ufficio da su un viale alberato a bagolari, la propria auto è parcheggiata sotto un ippocastano, giocherà coi figli o con i familiari a capire quali alberi abitano – e magari da oltre un secolo – il parco dove si porta il cane o dove si va a leggere il giornale. Anche le città più grigie e le periferie meno attraenti possono mutare improvvisamente aspetto.
Quale regola (ammesso che ne esista una) ha seguito nella selezione degli alberi presenti nell’opera?
Per quanto riguarda gli alberi veri, reali, direi la monumentalità, visto che spesso sono andato e vado a cercare alberi dei quali in precedenza apprendo l’esistenza; esiste comunque una quota, una percentuale di casualità: ho incontrato diversi alberi interessanti attraversando i paesaggi, per caso; le liste di alberi secolari e monumentali redatte meritoriamente dal corpo forestale e impresse nei diversi volumi sugli alberi monumentali sono incomplete e non c’é affatto da stupirsene. Molti alberi si trovano in proprietà private. Ma basti anche questo: le classifiche degli alberi più longevi o degli alberi più grandi sono in continuo aggiornamento, perché le scoperte, anche se può sembrare incredibile, sono ancora possibili.
Per quanto concerne gli alberi di carta, ovvero gli alberi così come figurano in diverse opere letterarie, in quella che io chiamo la letteratura alberale e che nei paesi di lingua anglosassone è rate del genere “Nature writing”, mi sono attenuto alla poesia americana, alla narrativa francese ed italiana, alla manualistica britannica; esistono letture obbligate, tassative, come Jean Giono, Mario Rigoni Stern, Carlo Cassola, Walt Whitman, Thoreau, e scrittori più prossimi a noi come Wendell Berry, Les Murray, Valido Capodarca, Mauro Corona o Roger Deakin.
“Ogni scarrafone è bello ‘a mamma soia”, ovvero ogni albero ha la sua importanza ma, dovesse per assurdo scegliere, c’è un albero al quale è più affezionato o che ha maggiormente ispirato la sua poetica?
Non esiste. Le classifiche d’altro canto lasciano sempre il tempo che trovano. Ci sono alberi che amo molto, come il Tasso di Cavandone, come i Ficus dell’Orto Botanico di Palermo o di Villa Fugata, in Sicilia, o ancora i due faggi di Entracque, nel cuneese, o ancora il bagolaro di Ivrea, nel parco dell’Archivio Storico Olivetti, il Tembusu dei giardini botanici di Singapore, gli enormi carrubi di Sicilia, l’olivastro di Luras in Sardegna, il Platano dei cento bersaglieri sul lago di Garda piantato nel 1574, i larici della selva di Chambons, il Generale Sherman in California, la grande quercia, il tiglio di Linn in Svizzera, l’Olmo Marylebone a Londra, la quercia di Sherwood, dove si racconta che Robin e i suoi compagni dormissero la notte; i grandi Baobab del Sudafrica e del Senegal, la Angel Oak in South Carolina con i suoi 1400 anni…
Anche a lei chiedo: cosa ci insegnano gli alberi monumentali?
Che siamo di passaggio. Che la natura è più forte di noi. Che stiamo correndo verso l’autodistruzione.
In Italia, paese che negli ultimi tempi ha dimostrato una scarsa attenzione verso la natura e l’ambiente (ultimo esempio i pesanti tagli ai parchi nazionali previsti in finanziaria che li lasciano in condizioni a dir poco drammatiche), l’interesse che ha riscontrato il suo libro può essere lo specchio di un segnale positivo, un’inversione di tendenza, l’inizio di una nuova sensibilità nei confronti del nostro eccezionale patrimonio naturalistico?
Non credo sia così. L’Italia è al contrario un paese nel quale si è assistito ad una bruschissima inversione di tendenza, fra anni Settanta e Ottanta: in primo luogo le politiche di responsabilizzazione che hanno colpito le industrie che per decenni hanno potuto inquinare liberamente, e che hanno riportato la salute del cittadino e l’equilibro fra produttività ed ambiente al centro dell’agenda politica. Oggi il consumatore è ossessionato dall’urgenza del benessere: basti pensare al fatto che non esiste pubblicità di automobile che non tenga conto dell’ambiente e del rispetto della natura. Nell’anno del Signore 2010 il dieci per cento del territorio italiano è occupato da un’area protetta, parco nazionale o regionale, provinciale o collinare, fluviale o area speciale, orto, giardino, parco pubblico. Un comune su tre in Italia è coinvolto nella tutela del paesaggio. Con questo non voglio dire che non esistano problemi o che al contrario le problematiche siano risibili. Affatto. Ma quant’acqua è passata sotto i ponti dagli anni della definizione del Parco d’Abruzzo e dall’imbarazzo dei comuni e delle comunità che al tempo non potevano immaginare che questa nuova realtà avrebbe così tanto mutato le proprie prospettive economiche e di salute psico-fisica? Nel 1977 Fulco Pratesi curava la prima guida ai parchi nazionali per la Musumeci di Aosta: in quel libro avveniristico Pratesi designava i confini di ventiquattro polmoni verdi in Italia, e di questi diversi non erano nemmeno parchi riconosciuti, come il Parco delle Dolomiti Bellunesi, il Parco del Sinis, il Parco dell’Etna o il Parco del Gennargentu. Lo scorso settembre muovevo i miei piedi sulle rocce vulcaniche alle pendici dell’Etna, nel territorio del Parco dell’Etna, alla ricerca di un Elice plurisecolare. Quasi tutte le regioni italiane oggi hanno a disposizione volumi sui relativi alberi monumentali, e più nessuno ride (o sorride) di fronte alla tutela degli alberi e del paesaggio. In Piemonte attualmente sono attivi ventiquattro parchi regionali, cinquantatre riserve naturali, dodici zone naturali di salvaguardia, nove riserve speciali, due parchi nazionali, per una superficie pari all’otto virgola tre percento del territorio regionale. A me pare impressionante!
Certo, l’economia nazionale è malata, un decennio e oltre di crescita all’un o allo zero virgola cinque per cento, senza parlare della crisi finanziaria piombataci addosso dall’America e le continue speculazioni sulla debolezza delle economie degli Stati non fanno che togliere risorse. E inoltre, ahimè, la politica economica di Tremonti e del governo attuale si sta risolvendo in un clamoroso bluff! Le cose da dire sarebbero veramente molte ma non è il caso di star qui a polemizzare: parto sempre dal punto che ogni persona, ogni cittadino possa incidere positivamente sulla realtà a lui/a lei prossima. La mia generazione ha presto appreso che è un errore aspettarsi qualcosa dallo Stato.
Nei suoi viaggi in Italia e nel mondo le è mai capitato di “scoprire” un albero monumentale non ancora segnalato?
Sì. Diversi. L’ultimo la settimana scorsa, un pino nero di centocinquent’anni nella casa di un privato nel biellese. Nel paese dove abito, Trana, in Val Sangone, ci sono due querce secolari, un castagno poderoso almeno secolare.
Infine, anche a lei chiedo di indicarci, come itinerario ideale del “turista arboreo”, almeno cinque alberi assolutamente da non perdere.
Restando in Italia direi: l’Olivastro di Luras (Sardegna), il Ficus macrophylla dell’Orto Botanico di Palermo (Sicilia), il castagno di Camuniano o Osteria del Bugeon perché ci si può sedere dentro (Emilia Romagna), i tre larici bimillenari della Valle dell’Ultimo (Trentino), il Platano dei cento bersaglieri a Caprino Veronese (Veneto), il Taxus baccata di Cavandone (Piemonte), la roverella di Villa Falconieri (Lazio).